Georges Didi-Uberman nel suo libro Immagini nonostante tutto scrive “Sapere è immaginare…” occorre confrontarci su ciò che è difficile da immaginare “…E’ come una risposta da offrire, un debito da saldare nei confronti delle parole e delle immagini che certi deportati hanno strappato alla loro spaventosa esperienza reale. Dunque non parliamo di inimmaginabile. Le nostre difficoltà non sono nulla al confronto di quelle dei prigionieri che hanno sottratto ai campi questi pochi brandelli di cui noi oggi siamo depositari e il cui peso affligge i nostri sguardi, brandelli più preziosi e meno rassicuranti di qualsiasi opera d’arte, brandelli strappati ad un mondo che li considerava impossibili”. Un confronto sui limiti e le potenzialità specifiche dell’immagine in quanto tale, artistica, fotografica, cinematografica. Quella del regista László Nemes è un’opera prima. Il tema è quello dell’Olocausto, già frequentemente trattato nella produzione cinematografica. L’ imponente e storico formato 4:3 con movimenti di macchina frequenti ci proietta nell’azione, in un’impresa diretta della strage in un lager nazista. La differenza sostanziale tra il cinema di Nemes e altri film di genere è quella di una regia espressa in modo totalmente inedito. La cinepresa quasi sempre ravvicinata al viso o alla schiena del protagonista come ad immedesimarci nel suo ruolo, ci evidenzia la disumana condizione in cui veniamo proiettati, riprese quasi mai stabili, da camera a mano, focalizzate sulla terrificante panoramica di ciò che avviene tutt’intorno. Saul è un ebreo ungherese prigioniero e membro del Sonderkommando nel lager di Mietek, che un giorno per ragioni ignote decide di voler seppellire un bambino che crede suo unico figlio. La trama è l’odissea sconvolgente di un’uomo il cui unico scopo diventa dare degna sepoltura a chi sente come figlio, includendo persino la liturgia di un rabbino. Tale determinazione sfuma in secondo piano lo scenario di atroci violenze concentrandosi invece sul volto di Saul, la cui umanità prevale sul disumano, tra sparatorie e stragi di corpi inermi ad ogni inquadratura. Nonostante la sua totale consapevolezza della fine inevitabile, dice ad un compagno“noi siamo già morti”, non vuole darsi per sconfitto. Sarà proprio la sua ossessione a tenerlo ostinatamente in vita, a dare un senso nella compassione della sepoltura per quel rispetto dell’umano inerme e vittima orrendamente calpestato da simile inaudita violenza e a proiettare lo spettatore in una vera e propria traumatica esperienza visiva. Il film vanta importanti riconoscimenti, come il Grand Prix della giuria a Cannes, il miglior film straniero dei Golden Globe 2016 e la nomina agli oscar come miglior film straniero. Nemes è all’esordio registico con un lungometraggio ma in passato si fece già notare per alcuni cortometraggi, ben quattro per la precisione tra cui il suo primo progetto “Turelem” sempre sulla tematica della seconda guerra mondiale.
Georges Didi-Huberman in his book Images Nevertheless writes “To know is to imagine …” we need to confront what is difficult to imagine “… It is as an answer to offer, a debt to pay to the words and images that some deportees they tore from their frightening real experience . So do not talk about unimaginable. Our difficulties are nothing compared to those of the prisoners who escaped the camps these few shreds of which today we are custodians, a weight that affects our looks, shreds more valuable and less reassuring of any work of art, shreds torn from a world that considered them impossible. “A comparison of the limits and potential of the specific image as such, artistic, photographic, cinematographic. This movie of the director Laszlo Nemes is a first work. The theme is that of the Holocaust, already frequently covered in film production. The impressive and historic 4: 3 format with frequent camera movements propels us into action, into the massacre in a Nazi concentration camp. The main difference between film Nemes and other genre films is that of a direction given in a totally original way. The camera almost always close to the face or back of the protagonist as to put ourselves in his role, it highlights the inhuman condition in which we are projected, shooting almost never stable, from hand-held camera, focused on the terrifying overview of what is happening all around . Saul is a jew Hungarian prisoner and member of the Sonderkommando in the camp of Mietek, who one day decided for unknown reasons to bury a child who believes his only son. The plot is the shocking odyssey of a male whose only goal becomes to bury the one who feels as his son, including even the liturgy of a rabbi. Such determination fades into the background scenario of atrocious violence, focusing instead on the face of Saul, whose humanity prevails over the inhumane, including shootings and massacres of defenseless bodies to each shot. Despite his total awareness of the inevitable end, he tells a companion “we are already dead,” he does not want to give up. It will be his obsession to hold himself stubbornly to life to give a sense of compassion for the burial, for that respect of the human and helpless victim horribly trampled by such unprecedented violence and to project ourselves in a real traumatic visual experience. The film boasts major awards such as the Grand Prix of the jury at Cannes, the Golden Globe for best foreign film in 2016 and the Oscar nomination for the best foreign film. Nemes is at his directorial debut with a feature film, but in the past has been noted for some short films, four to be exact including its first project “Turelem” always on the theme of World War II.